Dott.ssa Barbara Stefanelli - Direttore Vicario de “Il Corriere della Sera” -
 
Articolazione dell'intervento:
  • la presentazione di alcuni dati di riferimento
  • la situazione delle donne
  • la situazione dei giovani
  • le possibili soluzioni e l’identificazione di un primo obiettivo concreto sul quale concentrare gli sforzi

Partiamo dai dati

In Italia, nel primo semestre del 2020, circa 500.000 donne hanno perso il lavoro abbassando così la percentuale di occupazione femminile al 48% in un Paese nel quale molto faticosamente si stava superando, anche se di poco, la percentuale del 50%, comunque la peggiore in Europa dopo quella di Malta. A loro volta, le previsioni sulla disoccupazione giovanile sono negative in tutto il mondo, allarmanti per l’Europa e ancora di più per l’Italia relativamente alla fascia 20-35 anni. Il dato globale riportato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro ci dice che più di un giovane su sei ha smesso di lavorare nel periodo Covid e post Covid, che quanti hanno mantenuto il posto di lavoro hanno comunque perso in media il 23% delle ore retribuite e che ovunque le giovani donne sono state le più colpite.Questa generazione, che qualcuno inizia a definire “Unlucky generation”rischia una grave transizione negativa sia dal punto di vista economico, che individuale e sociale.Tuttavia, nonostante questa condizione, o forse proprio per questa condizione, si stanno in qualche modo diffondendo una maggiore consapevolezza  circa la necessità di una rigenerazione e la convinzione che occorra  fare ricorso a quella che viene definita resilienza trasformativa, mutuata dai comportamenti delle piante.

La situazione delle Donne

In tutti i Paesi il virus, in termini di mortalità, ha colpito di più la popolazione maschile. 
Se però consideriamo i contagi e disaggreghiamo i dati per classi d’età, la proporzione si inverte. In Italia, per esempio,
fra le donne adulte (20-50 anni) le diagnosi di Covid-19 sono state di circa 10 punti superiori rispetto a quelle riferite agli uomini.Ciò è dovuto al fatto che le donne sono maggiormente esposte come insegnanti, cassiere, operatrici nel turismo, nei servizi di pulizia e cura, ovvero nelle attività nelle quali la loro percentuale è maggiore, e in più molte di esse hanno perso il posto di lavoro.

Un capitolo a parte, ma che non può essere ignorato, riguarda il drammatico incremento della violenza domestica, triplicato in Italia a partire dal mese di marzo di quest'anno e che spesso porta le vittime ad una tragica fine.

Tra le possibili soluzioni a favore di una valorizzazione delle donne e dei giovani, la relatrice ne cita alcune lanciate dal Prof. Maurizio Ferrera che all'Università Statale di Milano insegna Scienza della Politica.  

E’ dimostrata, attraverso gli studi condotti dagli Osservatori di genere, l'esistenza di pregiudizi inconsci di genere (gender bias) che spuntano in situazioni imprevedibili, perché prodotto di strutture mentali radicate nella cultura, nelle abitudini e nell’immaginario delle persone. Anche in Paesi dove più avanti è la lotta alle discriminazioni di genere, gli “unconsciuos bias” sono in azione e possono orientare scelte che quasi sempre penalizzano il genere femminile, frenando carriere e limitando la possibilità di crescita, anche economica. Di fatto impoveriscono tutta la società. 

 I pregiudizi colpiscono anche i giovani. «Proprio perché inconsci, è difficile che il portatore riesca a capirli fino a prenderne consapevolezza. Però abbiamo visto che se un osservatore esterno allenato a riconoscere i bias li fa notare esplicitamente a chi deve prendere decisioni, il quadro muta», sostengono il Prof. Ferrera e Barbara Stefanelli in uno dei Dossier apparsi sul Corriere della Sera.

Nei Paesi del Nord Europa funzionano già da tempo Osservatori composti da uomini e donne, con l’obiettivo di verificare se nel processo decisionale si verifichino delle deviazioni inconsapevoli che tendono a riflettersi, in via pregiudizievole, a danno di gruppi o di persone rispetto ad altri. L’Osservatorio non ha il compito di intervenire nel merito delle decisioni prese, ma piuttosto di far riflettere i decisori sui motivi profondi che li hanno spinti a seguire determinati percorsi.

Questi Osservatori potrebbero essere replicati anche da noi in vari consessi decisionali e potrebbero fornire una soluzione di sistema, ad un costo molto ridotto, sia nelle imprese private che pubbliche.

Una misura immediata è quella di agire sulla leva fiscale attivando dei sistemi di tassazione differenziata per incentivare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, avendo però estrema attenzione al tema complicato che riguarda i percettori di secondo reddito.

Ancora, è importante che le pratiche conciliatorie tra lavoro e famiglia siano condivise anche dai padri ed è necessario nel contempo attivare un piano di ristrutturazione sociale a partire dall'insieme dei servizi di cura, piuttosto che intervenire con temporanee elargizioni a cascata.

 La situazione dei giovani (50% di loro sono giovani donne)

Quando si parla di disoccupazione giovanile non si parla soltanto di un’emergenza occupazionale chiusa in una bolla nera: un intero ciclo esistenziale è minacciato. Senza lavoro non c’è reddito, si è costretti a restare a casa dei genitori. Viene così rinviato a tempo, quello sì, «indeterminato» il momento in cui l’individuo costruisce la propria indipendenza e può sperimentare relazioni stabili di convivenza. Si considera giovane una persona sino a 35 anni, cioè a un’età in cui si dovrebbe essere nel pieno dell’attività e e impegnati nella costruzione del futuro proprio e del proprio Paese.

Secondo un’indagine di Eurofound, (Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), il 20 per cento dei giovani si èsentito solo” negli ultimi tre mesi, il 21 per cento si è dichiarato “nervoso e insoddisfatto”; il 16 “sconfortato”.

In Italia il problema si fa drammatico se pensiamo 1) al familismo culturale e istituzionale che privilegia le famiglie già esistenti rispetto alla formazione di quelle nuove, 2) alla pervasività di una mentalità che si lascia guidare da criteri gerontocratici nelle progressioni di carriera e soprattutto nell’accesso ai ruoli apicali di responsabilità, 3) alla lunga sequenza di strade a imbuto che restringono opportunità di vita e mobilità sociale per chi proviene da comunità o territori svantaggiati, 4) alla mancanza di politiche che sorreggano in modo concreto i percorsi di istruzione e formazione fino alla transizione verso il lavoro, 5) alla persistente incapacità di fermare la fuga dei cervelli o di attirare cervelli dall'estero. 
In Italia una giovane donna su 4 non studia e non lavora, in alcune Regioni il rapporto è addirittura 1 a 2 (Fonte Save the Children).
Cosa si può fare per sbloccare questa situazione? 
C’è un grande dibattito in Europa circa l'ipotesi di anticipare a 16 anni l’età di partecipazione al voto: a Malta è già una realtà, così come in Scozia, mentre la Germania ha cominciato a studiarne gli effetti nelle elezioni locali. Potrebbe essere un modo per aumentare il peso elettorale, oggi molto inferiore a quello della popolazione anziana, di una fascia sempre troppo “sulla soglia”.
Il tema è molto delicato, ma potrebbe essere affrontato con una adeguata formazione degli adolescenti per prepararli ad essere cittadini responsabili (magari anche più dei loro predecessori..)
Occorre porre grande attenzione a tutti quei progetti digitali in gran parte ecologici, che possono favorire il lavoro giovanile: nel Piano “Next Generation UE ci sono 50 miliardi destinati ai giovani e l’Italia deve essere in grado di attivarsi con progetti innovativi che abbiano come obiettivo l’occupazione giovanile per poter accedere a quei fondi, che altrimenti potrebbero essere dirottati verso altri Paesi con maggiore capacità di progettazione.
Spesso i progetti più promettenti su questi temi sono stati formulati, anche in Italia, proprio da associazioni di giovani, come CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari di Torino o Tortuga (“Ci pensiamo noi: dieci proposte per far spazio ai giovani”, Egea). 
Questa solo una parte della panoramica di possibili soluzioni ed interventi che ha visto però il Prof. Ferrera e la nostra relatrice concentrarsi in particolare su una misura che prevede investimenti sugli asili nido in quanto possono diventare degli hub da dove decollano opportunità in diverse direzioni.
Ad oggi la copertura delle necessità delle famiglie è di circa il 25% con rette molto elevate: la conseguenza è la sensazione che non ci si possa permettere di avere figli o di averne più di uno, e che tante giovani coppie decidano che uno dei genitori rinunci al lavoro (tendenzialmente la mamma) per occuparsi del figlio.
La scommessa è di arrivare entro il 2025 al 50% di copertura delle domande di frequenza agli asili nido, con l’auspicio che si possa arrivare al 33% in tempi brevi e al 100% in 10 anni, allineando i costi delle rette degli asili nido a quelli della scuola materna, così come già realizzato nella vicina Francia.
I principali fattori positivi da tenere in considerazione:
  • cura dei piccoli e stimolo al loro sviluppo cognitivo-emotivo, aiuto al superamento di diseguaglianze socio-economiche
  • maggiore sicurezza economica derivante dall'occupazione di entrambi i genitori, più consumi da parte delle famiglie
  • più occupazione (in Italia l’assistenza all’infanzia crea a stento lo 0,2% di occupazione, in Francia il 2,5%)
  • più equilibrio nei tempi di vita dentro e fuori casa
Tutto ciò sembra essere economicamente fattibile senza un grande esborso, perché l’Italia è un Paese con una tale decrescita demografica, che ci sono tantissime strutture che si stanno svuotando  (scuole materne e in parte scuole elementari) che consentirebbero di recuperare degli spazi unitamente a personale già formato in grado anche di gestire la cura di bambini piccoli.