Matteo Stefanelli
studioso, giornalista e organizzatore culturale, è docente di Comunicazione visiva e Audiovisiva all’Università Cattolica e direttore di COMICON, il Festival del fumetto di Napoli che ogni anno raccoglie 150.000 visitatori. Ha scritto di media, cultura pop e soprattutto fumetto per varie testate, sia generaliste che specializzate e pubblicato Il secolo del Corriere dei piccoli (Rizzoli, 2008), Bande dessinée: une médiaculture (Armand Colin, 2012), Fumetto! 150 anni di storie italiane (Rizzoli, 2016).
Stralci della relazione a cura di Anna M Goppion
L’identità poliedrica di Matteo Stefanelli emerge subito: fumettologo praticante, in ambito professionale cura mostre e progetti di comunicazione visiva, nel suo insegnamento indaga con particolare interesse le relazioni tra contenuti e business nell’ industria culturale pop.
La sua chiacchierata si concentra soprattutto sulla forma espressiva del fumetto: qual è il suo ruolo nella comunicazione visiva? Un ruolo sempre più forte, nonostante i 150 anni di età.
Se guardiamo al panorama dei linguaggi, possiamo osservare come tutti abbiano delle durate standard – breve/media/lunga - che generano delle abitudini.
Il cinema si esprime in corto/medio/lungometraggi;
la musica in singoli/LP/album;
la letteratura in racconto/romanzo breve/romanzo.
Queste durate standard si stanno però in qualche modo disarticolando a favore della forma breve: pensiamo ai videoclip, ai trailer, agli spot televisivi, che creano un flusso visivo continuo.
A partire dagli anni ’90 Internet ha ulteriormente esasperato questa tendenza, con la comparsa di banner, tweet, reel Instagram e Tik Tok.
Tutto questo non ha lasciato intonse le vecchie forme: i libri sotto le 200 pagine sono di gran lunga i più numerosi, l’arte visiva è passata dalla fissità del museo allo scroll di flussi di immagini.
Le forme brevi dominano l’intrattenimento ma anche l’informazione:
lo sport più che essere praticato viene visto e “scommesso”;
le app di dating sono ormai il mezzo principale per le relazioni sociali.
Le industrie costruttrici di contenuti visivi stanno creando una specie di dipendenza, generando impulsi e gratificazioni istantanee che stimolano la produzione di dopamina.
Il percorso storico del fumetto è anticiclico: nasce a metà dell’’800 come forma breve, usa e getta (le vignette, le strisce) in un mondo di forme lunghe.
All’inizio del ‘900 conosce un boom di massa, negli anni 60/70 si afferma la graphic novel, che diventa strumento narrativo nelle scuole, presidio longform di articolazione del discorso e domina le classifiche di vendita.
Già studiosi come Umberto Eco, Goffredo Fofi, John Updike in tempi non sospetti avevano intuito il potenziale di questa forma espressiva.
Stiamo assistendo alla fine del fumetto, si è normalizzato? Tutt’altro, evolve.
In Corea del Sud esistono piattaforme di fumetto digitale, in cui la modalità di consumo è lo streaming, e si tratta di bigtech che hanno 100/150 milioni di abbonati e hanno superato il fatturato della Marvel.
La tendenza si è velocemente diffusa in Giappone, Indonesia, è sbarcata negli Stati Uniti.
Sono nate start up che propongono all’utente di utilizzare i propri tools per creare nuovi fumetti.
Con la diffusione delle nuove tecnologie, la richiesta di fumettisti digitali è in costante aumento: ci sono tantissime opportunità di lavoro in diversi campi creativi e artistici.
Al contrario di quanto si possa pensare, l’avvento tecnologico non ha ridotto le capacità di questo mercato, anzi ha contribuito alla diffusione della cultura del fumetto e dei suoi lettori.
Nel 2022 sono state vendute 11 milioni e 505 mila copie di fumetti solo in Italia (+260,5% rispetto al 2019).
Siamo quindi di fronte a una nuova fase della storia del fumetto, e va sottolineato come si tratti di una forma complessa, che combina la dimensione visiva a quella verbale e questo è molto utile nel processo di apprendimento.
In altre parole, sta facendo lo stesso mestiere di altre forme di comunicazione contemporanea.